Dove c’è esperienza di verità non può non esserci bellezza

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“Una volta che abbiate conosciuto il volo, camminerete sulla terra guardando il cielo, perché là siete stati e là desidererete tornare. Noi tutti siamo esiliati entro le cornici di uno strano quadro. Chi sa questo, viva da grande. Gli altri sono insetti. L’esperienza è il solo insegnante in cui possiamo confidare”.

Meditavo su questa massima di Leonardo Da Vinci, mentre mi apprestavo ad andare a intervistare Marco Filiberti, regista e drammaturgo. Fino al nostro incontro, avvenuto qualche giorno fa alla Fondazione Poma – dove per tutto il mese di giugno sarà possibile visitare la sua mostra “Alle sorgenti della bellezza” – non avevo idea di chi fosse questa persona. Nel preparare l’intervista, come è mio solito, mi ero documentata sui suoi lavori, i traguardi conseguiti, la comunicazione veicolata. Ma tutto questo, quasi mai, ti restituisce la “persona”. Ti racconta, semmai “il personaggio”: una cosa è chi sei, ben altra è cosa fai. Ci sono degli esseri però in cui i due piani sono coincidenti, si tratta di individui rari che hanno conquistato il raro privilegio di fare ciò che sono. Credo che Marco Filiberti sia tra questi.

Parsifal

Questo pensavo, mentre lo ascoltavo raccontarmi il suo Parsifal, il giovanetto eroe “che si apre un varco” nel mondo alla ricerca del Sacro Graal, il più grande dono che Dio fa all’uomo: ovvero il suo Spirito. Non ha memoria biografica il Parsifal di Filiberti, non conosce il suo nome, non sa chi siano i suoi genitori. “Tutto questo lo rende agli occhi degli altri una sorta di scemo del villaggio” mi spiega, quando in realtà, non avere memoria e quindi un’identità egoica (vale a dire il convincimento indiscusso che noi siamo il nostro corpo e la nostra mente condizionata) rappresenta una sorta di stato di grazia, utile al raggiungimento di quella agognata vera essenza cui il protagonista giungerà attraverso le esperienze col mondo, attraverso quella dimensione cristica che è esperienza di Verità. Parsifal attraversa una linea diacronica, ma è soprattutto nella relazione con l’altro che realizza sé stesso. L’intera opera cinematografica di Filiberti è un flusso di coscienza in cui si intrecciano linguaggi differenti, sintesi perfetta di un percorso artistico e spirituale che non è mimetico, ma trasfigurativo, fa ampio ricorso agli archetipi e alla riconnessione con la sorgente. “Credo in un tempo eterno” mi dice ad un certo punto, sottolineando che non è il contingente che mira a raccontare, ma ciò che vale in ogni luogo e in ogni tempo perché è dentro di noi che avviene. Ecco perché Parsifal non è solo il racconto di un Medioevo graalico, mistico e spirituale, ma un viaggio metafisico che ciascuno di noi può intraprendere ogni giorno.

Verità

“Dove c’è esperienza di verità non può non esserci bellezza” sottolinea Filiberti, che intende con la sua arte offrire una testimonianza al pubblico di quello che lui identifica col senso, “il senso che io trovo in questa esistenza” dice. Ecco che il messaggio di cui Parsifal si fa latore è quanto mai attuale, anche in tempi come i nostri “così desacralizzati, inquinati, ma dove tutto potenzialmente è un portale” ovvero un elemento rivelatorio. Non avere un’identità “ingabbiante” è un vantaggio per il giovane Parsifal, il rischio più grande che possa correre oggi chi intraprende un viaggio simile è confondersi con i molti abiti che indossa, con le maschere, con i ruoli che di volta in volta è chiamato ad interpretare in quello strano quadro di Leonardiana memoria, dentro una cornice da cui è difficile uscire. C’è un antidoto a tutto ciò? La parola chiave è responsabilità. “Non va più ricercata fuori di noi – puntualizza Filiberti – noi siamo addestrati a trasferirla da sempre, sui genitori, sullo Stato, su un esterno non meglio definito, quando invece ti assumi questa responsabilità trovi la libertà. Perché libertà non è la concessione di fare quello che si vorrebbe, ma affrancamento da ogni dipendenza”.

Toscana

La Toscana non è solo ambientazione cinematografica, set per le storie che Filiberti racconta, è anche “casa”. “Sono nato in città, a Milano, ma non sono urbano come natura – evidenzia – per questo ho identificato una campagna che potesse accogliermi per vivere e lavorare e l’ho trovata nella splendida Val D’Orcia, ne ho fatto un asset produttivo e maieutico”.

Qualche anno fa fonda  Le Vie del Teatro in Terra di Siena, una realtà artistica  che lo stesso Filiberti definisce “rigorosa, ma aperta”, dove gli attori ricevono sì una formazione tecnica drammaturgicamente molto connotata, ma anche una sorta di paideia (formazione interiore). “Si tratta di una famiglia – mi chiarisce – così come l’ho sempre intesa io, non di vincoli, ma di appartenenze”.

Accadimento

Nel teatro tutto ciò che accade, accade in quel momento, non è replicabile, è un unicum. Nel riferirsi ai suoi lavori teatrali, Filiberti ha coniato la definizione di “accadimento”. “I miei allestimenti sono installazioni, non scenografie, se cambia il setting cambia l’intera morfologia dell’operazione. Quello a cui lo spettatore assiste quella sera è unico e non replicabile”. Al centro di tutto c’è la forza visiva dell’immagine, capisco, ascoltando l’artista eclettico che ho davanti che l’elemento iconografico e quello esoterico sono fondamentali nella sua produzione, insieme alla ricerca dell’arché archetipo/universale.

Ci innamoriamo di ciò che vediamo – mi dice infine – ma questo non basta, è solo l’inizio. Perché dia corpo ad un’idea mi deve abitare. È questo il cristico: essere abitati da qualcosa che allarga lo spazio che c’è dentro di noi”. Questo mi porto via, dopo essermi accomiatata da lui, la prepotenza dell’essere abitati da qualcosa, che agisce dentro di te al punto che vuole uscire fuori per essere con altri condivisa.