“Chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore”. Lo diceva Indro Montanelli allorquando con l’entrata in politica di Silvio Berlusconi, da lui apertamente disapprovata, lasciò Il Giornale e, nel marzo 1994, fondò la Voce.
Questo principio, semplice nella teoria, quanto difficile nella pratica è uno dei cardini su cui poggia il giornalismo anglosassone o più correttamente il giornalismo “all’americana” perché è negli Stati Uniti d’America che si è sviluppato.
Un sistema democratico funziona se i cittadini sono informati e possono esercitare liberamente il proprio dritto di scelta alle urne. Ne consegue che il compito primario della stampa è di fornire ai cittadini le informazioni di cui hanno bisogno per scegliere – e di farlo in maniera onesta, esatta e obiettiva – avendo come discrimine ultimo quello di fare l’interesse pubblico.
Ovvio sì, peccato che i giornalisti lo abbiano dimenticato, tradendo la loro funzione pubblica e che i lettori nella stragrande maggioranza dei casi non ne siano consapevoli. Consapevoli di cosa? Del right to know, il diritto ad un’informazione libera che solo può essere tale quando la stampa esercita un controllo sugli eletti e lo fa in nome del popolo sovrano.
Una volta, un assessore di un Comune di cui seguivo la cronaca politica mi chiese per chi lavorassi. Risposi un po’ sorpresa citando la testata. Doveva saperlo, perché me me lo chiedeva? Perché riteneva assai peregrina l’ipotesi che nel mio lavoro, giudicato fin troppo zelante, l’intenzione fosse unicamente quella di servire l’interesse pubblico, ovvero il diritto ad una libera informazione del lettore-elettore. Dovevo avere, secondo la sua visione del mondo, un padrone “altro” che mi dettava la linea e che non si identificava con l’editore che avrebbe financo la legittimità di farlo, ma con un fantomatico soggetto politico che mirava a distruggere la giunta di cui faceva parte.
Era legittimo pensarlo, tanto più che non mi conosceva (ancora) e non aveva la più pallida idea del fatto che conservavo, a dispetto degli anni, una visione ideale del mio mestiere che il cinismo non era ancora riuscito a fiaccare e per la quale avrei persino potuto essere tacciata di ingenuità.
Ebbene, che il giornalismo sia essenzialmente servizio pubblico è una convinzione che mi appartiene e che limitatamente al mio potere cerco di praticare, consapevole che in ragione di ciò non farò mai carriera. Ma sono contenta di ciò che sono e coltivo l’ambizione di portare ciò che sono in ciò che faccio e non viceversa. Se è nell’interesse dei lettori essere informati su qualcosa il mio dovere è raccontarlo perché il loro diritto a conoscere il fatto sia rispettato.